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Aprirsi all’estero: una sfida culturale per le aziende umbre

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Il paradosso dell’economia umbra: si susseguono evidenze incontrovertibili alle quali fanno eco una pletora di chiacchiere: lasciando ovviamente da parte l’inconcludenza e la superficialità dei nostri politici, i comportamenti concreti di imprenditori e lavoratori continuano a basarsi su “ricette” general-generiche prive di impatto sui problemi attuali. I giovani continuano a cercare un “posto” senza saper come fare, le aziende continuano a cercare il nero, ma il rosso si accumula.

Fatto: l’economia umbra è in uno stato pietoso. Nel Rapporto Annuale sulle Economie Regionali appena pubblicato Bankitalia sottolinea: “la produzione di beni e servizi è aumentata … la dinamica si è tuttavia indebolita. Sul fatturato delle imprese industriali ha inciso il minore contributo fornito dalla componente estera della domanda […] Lo sviluppo del turismo, in atto da un triennio, si è bruscamente interrotto dopo il verificarsi degli eventi sismici”. La ricetta sembra semplice quindi: aprirsi all’estero. Purtroppo, mancano delle indicazioni pratiche sul come conseguire quest’obiettivo.

Perché? Perché in genere (a parte poche luminose eccezioni) manca la comprensione di cosa comporti veramente “aprirsi all’estero”: cambiare il nostro modo di interagire. Che si tratti di turisti stranieri in Umbria, o prodotti umbri all’estero, o trovare lavoro come expatriate, l’ostacolo rimane culturale. E la cultura non è “chiacchiere”, ma un elemento estremamente concreto, che condiziona i comportamenti quotidiani. La “chiusura umbra” dal sapore medievale che tanto a lungo ha caratterizzato la percezione che gli altri hanno della nostra Regione, oggi, nel 2017, è diventata una zavorra pesante che impedisce ad individui ed imprese di “volare veramente”, costruendo e sviluppando rapporti mutualmente soddisfacenti con partner che hanno radici diverse dalle nostre. E’ su questi aspetti che si può e si deve intervenire, con metodi e tecniche specifiche.

Provo a dare esempi concreti. Nella mia attività di coach di comunicazione in inglese e francese aiuto da anni professionisti ed imprenditori umbri ad “aprirsi all’estero” per affrontare colloqui di lavoro in inglese o gestire clienti e fornitori internazionali. Ciò che vedo è che emerge sempre lo stesso limite culturale: l’idea che basti sapere l’inglese per interagire efficacemente. Il primo passo nel mio lavoro è sempre lo stesso: portare il cliente a comprendere che l’inglese, in sé e per sé, è solo il punto di partenza. Oltre al necessario, però, serve l’indispensabile: la consapevolezza di dover ripensare (spesso cambiare radicalmente, ed esistono dei metodi per questo) il nostro modo di comunicare. La consapevolezza, la volontà e la voglia di mettere in atto dei cambiamenti, nel nostro comportamento quotidiano e nel funzionamento dell’impresa per poter, realmente, aprirsi all’estero e risollevare l’economia umbra.

Da circa un anno sto aiutando una piccola impresa del perugino a sviluppare nuove modalità di comunicazione (in inglese, ovviamente) con una multinazionale scandinava di cui l’azienda è distributrice. Punto di partenza, la frustrazione: “quando c’è un problema, l’addetto di turno insiste nel dire che la procedura non prevede quello che chiediamo”. Qui, la lingua c’entra poco. C’entra molto di più l’atteggiamento: i miei clienti hanno avuto successo per decenni grazie alla loro capacità di comunicare da persona a persona in maniera informale, senza filtri, basandosi sulla fiducia della “conoscenza reciproca”. Con una multinazionale questo non funziona, ma diventa addirittura un fattore di complicazione perché viene interpretato come una dimostrazione della “solita imprecisione e pressapochismo degli italiani”. Completamente all’oscuro delle sagge soluzioni sviluppate dagli italiani nei secoli per girare intorno agli ostacoli frapposti dalle infinite burocrazie borboniche, un nordeuropeo non riesce proprio a concepire questa maniera di interagire. Magari sogna di venire in vacanza in Italia e godere dell’atmosfera informale del nostro paese, ma quando si tratta di business si aspetta una adesione scrupolosa a quanto dettato dalla sua burocrazia. Ogni volta, gli imprenditori della piccola azienda familiare si trovano allo stesso punto: questi stranieri non sono “corretti”, non hanno alcuna “etica” perché mancano di considerazione per i problemi incontrati dai loro partner. Una conclusione perfettamente logica, in un posto dove “si conoscono tutti”. Ma l’Umbria, se si apre veramente, non è e non sarà più in un posto dove “si conoscono tutti”! Nel contesto internazionale questa conclusione diventa un vicolo cieco, e la frustrazione si accumula finché non si giunge all’inevitabile: lasciar perdere e concentrarsi sul “business as usual”, su “quello che abbiamo sempre fatto e che finora ha funzionato”. Peccato che questo sia un lusso che non possiamo più permetterci: continuare come se nulla fosse, come se avessimo una comprensione totale del contesto nel quale ci muoviamo.

 

Col mio cliente, grazie al coaching, stiamo lavorando su questo: sulla disponibilità ad apprendere: imparare a comunicare con partners che hanno una visione e un modo di agire diversi dai nostri – e questo apprendimento lo possono raggiungere solamente le persone, i singoli, che si tratti dell’imprenditore o dei suoi collaboratori, e poi, eventualmente, l’impresa nella sua interezza. Per superare l’ostacolo, stiamo anche lavorando sulla disponibilità a disimparare: cioè mettere da parte, quando necessario, quel “nostro modo di fare” che non ha più senso con le sfide attuali. I risultati ad oggi sono incoraggianti e il mio cliente sta cominciando a porsi nell’ottica (e costruire gli strumenti concettuali per) capire quali sono i meccanismi e le regole di funzionamento di un’azienda nata e cresciuta a migliaia di chilometri da Perugia. Per capire, e magari entrare in una relazione dialettica quando serve – e giungere, magari, a “smussare gli spigoli scandinavi” oltre che a “raddrizzare le curve italiane”.

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