In una scelta di innovazione nei metodi formativi, l’Ordine degli Architetti di Perugia e la Fondazione Umbra per l'Architettura mi hanno coinvolto per progettare e gestire quattro iniziative di sviluppo delle competenze per il professionista che lavora, o intende lavorare, all’estero o con soggetti esteri sul territorio italiano. Prima dell’inizio degli incontri (previsto per Aprile 2019), ne approfitto per lanciare sul blog una riflessione su quali siano le competenze determinanti a tale scopo. Incidentalmente, la riflessione consente anche di “guardare nella scatola nera del coaching” e comprendere alcune differenze sostanziali tra questo metodo e la formazione “tradizionale”.
Cos’è un architetto?
Nella pratica del coaching linguistico, dove incontro professionisti in ogni campo, parto spesso da domande come questa, apparentemente banali.
Una volta superate le tautologie (“architetto è chi progetta e presiede alla costruzione di edifici”), come coach linguistico il mio ruolo è aprire una riflessione sulle fondamenta (sic) della professione: cosa fa, in realtà, l’architetto?
Qual è il suo ruolo?
Come si valuta, la capacità professionale dell’architetto?
Chi ne valuta l’opera, in quali momenti la valuta, e sulla base di quali criteri?
Da qui parte il coaching linguistico: interrogarsi su ciò che a prima vista appare evidente spesso genera prospettive ortogonali sulla quotidianità.
“Insanity”, afferma una citazione erroneamente attribuita ad Albert Einstein e probabilmente originata dagli Alcolisti Anonimi, “is repeating the same mistakes and expecting different results”. Finché pensiamo di ottenere all’estero risultati diversi riproponendo ciò che abbiamo sempre fatto in Italia corteggiamo quella rassicurante forma di insanità mentale generalmente travestita da tradizione, routine, abitudine, vezzo, blasone.
Per questo credo che abbia senso partire dal concepire idee “diverse” sul perché investire il proprio tempo e le proprie energie in un’iniziativa di “aggiornamento professionale”: per indirizzare il significato di “aggiornare” lungo la rotta giusta. Lontano dagli scogli del “rinviare ad un altro momento” e vicino al concetto di “tenere a giorno, mettersi al passo”; ed anche verso un magnifico intransitivo: farsi giorno.
Come coach linguistico cui è stato affidato l’incarico di aiutare degli architetti ad avere successo “con l’estero”, non posso che partire da qui: dal guardare il problema con occhi diversi.
Il problema del “cos’è un architetto” è ancor più pregnante nel momento in cui poniamo questa figura al centro di una rete di rapporti con soggetti non provenienti dalla stessa cultura. Qui, immaginare di raggiungere il successo professionale affidandosi alle definizioni scontate, alla quotidianità, al “qui si è sempre lavorato così” non può che portare al naufragio. É forse questa la ragione per la quale il 42% degli architetti italiani dichiara di volersi trasferire all’estero, mentre solo il 5% dichiara di averci effettivamente lavorato[1]?
Sospetto di si.
La prima differenza tra il coaching e la formazione “tradizionale” nasce da qui: come coach linguistico, non ho formule magiche da proporre, non ho teorie preconcette o preconfezionate da sbolognare ad un pubblico assetato di conoscenze, non sono l’ennesimo esperto della materia pronto a sciorinare a tassametro Verità Assolute.
Contrariamente alla formazione d’aula, non sono un “couch” sul quale sedersi comodamente mentre scorre una colorata presentazione powerpoint. Sono invece un “coche”, nel senso francese del termine: quella particolare versione di cocchio sviluppata nel XVI secolo che consentiva, grazie agli ammortizzatori e ad una cabina coperta, di spostarsi più o meno comodamente da un luogo all’altro. Quindi: necessità di forza propulsiva, di cavalli (non cavalli motore), di passeggeri, di conducente, di destinazione chiara.
Sono anche (a volte) “coach class” – classe economica, priva di frills, di fronzoli, ma aperta e disponibile anche a passeggeri non appartenenti alla nobiltà. So che per la gran parte dei miei clienti ciò che conta è divenire più capaci di raggiungere un obiettivo piuttosto che poter dire “sono appena tornato da un corso alla Bocconi” – con tutto il rispetto per la mia anziana Alma Mater, dove ho lavorato per quasi un decennio.
Sono poi (sempre) un “coach” nel senso americano del termine (che purtroppo ormai diamo per scontato): un allenatore che ti aiuta a migliorare ciò che sai fare, nel quadro del particolare ruolo che occupi nella particolare squadra del particolare gioco che occupa il tuo tempo.
Tra i miei strumenti di lavoro: la lingua (Certo, inclusa l’ironia e la battuta facile, ci mancherebbe!). Lavoro con, e sulla, lingua.
Questo perché nella gran parte dei casi, tra le competenze richieste per “Vincere In Culo Mundi” una posizione preminente è occupata dal “saper convincere altri della giustezza delle proprie idee”.
La lingua come strumento di relazione, ponte tra individui e culture. Digito su google “Frank Lloyd Wright quotations”:
“We create our buildings and then they create us. Likewise, we construct our circle of friends and our communities, and then they construct us”.
Di colpo, l’architetto non è più (solo) chi costruisce edifici: è colei (colui) che, per il tramite del ponte-edificio, costruisce relazioni e viene da esse costruita(o); un pontifex privo del dogma dell’infallibilità e, forse, più vicino all’originale senso evangelico della parola: colui (colei) che è primo(a) perché è l’ultimo(a) di tutti, la persona che “serve”, al punto da “venir costruita” non solo dal proprio cerchio di amicizie e comunità, ma anche addirittura suo stesso prodotto, l’edificio.
In quello spazio al di fuori dei confini del (fu) Belpaese, in quei luoghi che per comodità nel mio libro sul coaching chiamo “In Culo Mundi”, ha successo il professionista che è in grado di osservare, di ascoltare, e di entrare in risonanza, con una rete molto ampia di soggetti: committenze, comunità, partners, finanziatori, lavoratori di cantiere... Attraverso la lingua, certo. Ma in una maniera diversa da quella che tendiamo a dare per scontata. Così come il successo di un edificio non si misura dalla qualità delle fondamenta, Vincere In Culo Mundi dipende solo in minima parte dalla correttezza grammaticale e di pronuncia del proprio inglese.
Nella mia esperienza di coaching, ho verificato che questo è vero per l’ingegnere, l’avvocato, il commercialista, il manager.
Mi aspetto che sia vero per l’architetto.
E per il coach linguistico: per questo, mi piace pensare che tra gli architetti iscritti all’Ordine ci sia qualcuno che, in questo momento, stia raccogliendo il mio invito ad “entrare in risonanza” ed aggiungere il suo personale tassello a quello che vuol essere, più che un soliloquio, un dialogo.
angelo[chiocciola]communicationskill.it
[1] Architects’ Council of Europe, The Architectural Profession in Europe 2016